La funzione più importante dell’arte sacra indo-tibetana è quella di favorire la concentrazione della mente di un contemplatore su di una determinata divinità, sia essa rappresentata antropomorficamente, sia essa solo indicata per via di specifici sottintesi simbolici. Va però ricordato come la motivazione che generalmente, e non da oggi, presiede all’atto della committenza (da parte dei laici, ma anche da parte dei religiosi) sia l’accumulazione dei ‘meriti spirituali’ (punya), finalizzati al superamento di condizioni avverse in questa vita (malattie e altri ostacoli d’ordine esistenziale) o nelle future (principalmente evitare la rinascita nei regni inferiori: esseri infernali, spiriti famelici, animali). Nella tradizione pertinente viene inoltre supposto che gli esseri rappresentati nell’arte possano stimolare trasformazioni profonde nella coscienza di chi vi si accosta. Le raffigurazioni artistiche delle divinità del vajrayana, esistendo per poter entrare in contatto con la consapevolezza ordinaria, assecondano tale umano percepire mostrandosi multiple al molteplice interlocutore. Un linguaggio che si articoli in tal modo avrà fra i suoi scopi quello di indurre un individuo ordinario a considerare categorie sempre meno evidenti della realtà fenomenica, obbligando alla percezione di ciò che normalmente ci si rifiuta di vedere. Gradualmente il devoto progredisce attraverso vari livelli di consapevolezza alla fine dei quali trascende la necessità di un supporto materiale sensibile. L’arte sacra indo-tibetana esprime, in sintesi, il tentativo di imprimere nell’immagine una vigorosa valenza mistica, evocata da un meditatore per potere essere efficacemente trasmessa, con le minori varianti possibili, ad un altro meditatore, utilizzando complesse simbologie, strutture iconogrammetriche e codici iconologici. Quanto al senso profondo di questa produzione artistica, per il devoto avvertito le immagini antropomorfe dei buddha e dei bodhisattva sono iconogrammi, aggregati di potenti simbologie organizzate secondo schemi prefissati dalla letteratura canonica. Sia pure in sembianze umane, i corpi dei buddha sono in realtà a loro volta simboli, tanto fonte di ispirazione morale che sostegno alla contemplazione. L’arte del vajrayana indo-tibetano assume pertanto una valenza rituale, esprimendosi come liturgia di trasfigurazione dell’uomo nel divino. I buddha, nel proporsi come modello anche formale forniscono al discepolo tutte le indicazioni per realizzare una piena emulazione, e questo più attraverso la seduzione del convincimento che tramite una persuasione fondata in modo univoco su una loro imperscrutabile superiorità.
Cos’è una thangka?
Una thangka (tibetano: thang ka, ‘piano’ o ‘superficie’, anche se viene più spesso citato il significato funzionale di ‘rotolo’) è, in estrema sintesi, un’immagine devozionale caratteristica del Buddhismo tibetano, e viene utilizzata per la meditazione, per la preghiera e per il culto. In genere le thangka si presentano come dipinti eseguiti su una tela preparata su entrambi i lati; non sono però rare thangka in cui l’immagine venga ricamata, stampata o tessuta. Il carattere di tali opere fa sì che siano eseguite secondo un rigido protocollo sul quale interviene direttamente la committenza che, se costituita dai religiosi, si rende garante del sacro canone di rappresentazione iconografica; ultima fase di esecuzione di una thangka è costituita dal rituale di consacrazione in cui possono anche essere vergate delle scritte, in genere sul retro. Parte integrante di una thangka è rappresentata da un complesso apparato di tessili che assume particolari significati e funzioni e che incorniciano e possono celare, con uno o più veli, in diversi momenti l’immagine. L’incorniciatura accoglie inoltre una stretta doga lignea applicata superiormente ed un bastone, collocato in basso, ornato da una coppia di terminali generalmente in metallo. Quando non utilizzata, la thangka viene riposta arrotolata con l’immagine verso l’interno e in questo modo viene conservata o trasportata da una casa ad un monastero, oppure da un luogo di culto ad un romitorio. Per facilitarne la trasportabilità la thangka non è tesa su un telaio, come solitamente avviene nei dipinti su tela; su un telaio, tuttavia, è stato teso il supporto del dipinto in fase di esecuzione.
Il mandala
Nella tradizione vajrayana del Buddhismo mahayana il ‘risveglio’ (bodhi) nonché il cammino verso di esso possono essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene proposto quale rappresentazione ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo. In questa accezione vengono così efficacemente riassunte le principali concezioni cosmologiche e psicologiche buddhistiche che Giuseppe Tucci, grande figura di orientalista e padre della tibetologia moderna, ebbe a darne la definizione, divenuta oramai classica, di ‘psicocosmogramma’. Tecnicamente il mandala è la proiezione su di un piano bidimensionale di un palazzo a pianta quadrata inscritto all’interno di una serie di barriere circolari; al loro centro si trova il santuario (kutagara) che ospita la divinità principale detta mandaleshvara o chakreshvara (letteralmente il ‘signore del mandala’ o il ‘signore del cerchio’). L’identificazione mandala/chakra avvia la riflessione sui più riposti significati esoterici di questo sistema, laddove i chakra, le ‘ruote’ della fisiologia yoghica, alludono a quelle valenze presenti in germe nel continuum mentale dell’adepto tantrico che gli consentiranno di trasformare, oltre a se stesso, l’ambiente circostante appunto in un mandala, edificando così la divina dimora di una divinità con il puro materiale di una consapevolezza impeccabile.
Un mandala può infine essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può finalmente essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata tra i materiali grossolani il più efficace poiché tradizionalmente è tratta da sostanze preziose e necessita di un’estrema attenzione per l’esecuzione dei dettagli del mandala.
MANDALA DI AVALOKYTESHVARA
Roma galleria A. Sordi
“Il grande mandala della pace di Avalokyteshvara” Le foto seguenti si riferiscono al mandala realizzato dai monaci del Monastero Tibetano di Gaden Jang Tse presso la Galleria Alberto Sordi (ex Galleria Colonna) dal 28 febbraio all’ 11 marzo 2005.. Le immagini mostrano le fasi di costruzione e la cerimonia di distruzione del mandala che ha attirato un pubblico inaspettato al momento della distribuzione delle sacre sabbie, (sono stati distribuiti più di 1500 sacchetti sino ad esaurimento della sabbia