Simbolo di un ciclo infinito, l’Akshamala trova la sua prima testimonianza nelle raffigurazioni delle grotte di Ajanta, risalenti al II° secolo a.C.
In origine l’ Akshamala è una ghirlanda, chiamata “Bija” , un nome che ricopre diversi significati di grande importanza:
- “Bija” è la traduzione dal Sanscrito di “seme”, ed è utilizzata per indicare l’origine e la causa di tutte le cose.
- nella scuola Buddhista Mahayana il termine “Bija” si riferisce alla “Teoria della Consapevolezza”, secondo la quale ogni azione produce delle “impressioni” (le Bija appunto), che rimangono nella nostra memoria cosciente. Il mondo esterno nasce quando questi semi germogliano, rilasciando il loro profumo.
- Nell’ Hinduismo, invece il termine “Bija” traduce una “sillaba mistica” (la più nota tra tutte è l’ Ohm), contenuta nei mantra in questo caso i semi non hanno importanza particolare, ma servono a far mantenere la concentrazione durante i riti e le preghiere.
Per quest’ultimo motivo l’ Akshamala è noto anche come “rosario Buddhista”: la sua funzione principale è appunto quella di manterene il calcolo delle preghiere senza distrazioni. Il rito prevede infatti che ad ogni preghiera la mano destra sposti uno dei grani in senso orario, mantenendo un profondo rapporto con i rituali buddhisti, che si svolgono sempre in senso orario.
I grani che compongono l’ Akshamala sono 50, e corrispondono alle 50 sillabe mistiche principali, ma ve ne sono anche di 108, numero molto simbolico all’interno delle tradizioni Buddhista ed Hinduista.
Il numero 108 è infatti considerato “numero sacro”, in molte regioni indiane, legato alle pratiche dello yoga e del Dharma.
- Secondo la tradizione Hinduista – ad esempio – le divinità hanno 108 nomi, ed è considerata una pratica sacra quella di recitare durante i riti religiosi questi nomi, contandoli sui grani dell’ Akshamala (o Mala).
- Allo stesso modo i monaci Zen indossano uno Juzu (simile all’Akshamala, però da polso) formato anch’esso da 108 grani.
- Il Buddhismo tibetano crede esistano 108 peccati, e 108 bugie che gli uomini possono dire.
- In Giappone, nei festeggiamenti di fine anno, si suona una campana per 108 volte, ognuna delle quali rappresenta una delle 108 tentazioni terrene che l’uomo deve superare per raggiungere il Nirvana.
- 108 è il numero delle intersezioni delle linee tra i Chakra, che convergono sulla linea del cuore e portano alla realizzazione e all’ auto-coscienza.
Esistono anche Mala a 21 o 28 grani, che solitamente vengono utilizzati per le “prostrazioni”, un rituale di genuflessioni che si effettua per ringraziare il “Triratna” (Buddha, i suoi insegnamenti e la comunione spirituale).
IL DORJE (O VAJRA)
Particolare importanza è stata data dal Buddhismo Tibetano alla traduzione letterale di Vajra: tuono (appunto) o diamante – questi due elementi hanno infatti la capacità di distruggere, ma sono di per sé indistruttibili, e questo è uno dei principi di liberazione spirituale e mentale su cui si basa la filosofia Tibetana. Il Dorje – o Vajra – rappresenta infatti la fermezza di spirito ed il raggiungimento di un elevato potere spirituale in grado di guidare verso la Verità, distruggendo l’ignoranza.
Il Vajra è divenuto il simbolo del Buddhismo Vajarana, una delle tre maggiori correnti del Buddhismo, conosciuta anche come “via del tuono” o “via del diamante”.
Nell’iconografia e nei riti del Buddhismo Tibetano il Dorje è sempre accompagnato da una Campana, ed assieme questi due simboli rappresentano gli opposti che convivono: la campana è infatti simbolo del lato femminile, del diamante, del corpo fisico, mentre il Dorje lo è del lato maschile, del tuono e della mente. Durante i riti Buddhisti il Dorje è tenuto nella mano destra, mentre la campana nella sinistra.
Il Dorje viene spesso utilizzato durante i riti di meditazione come simbolo dell’unione tra la Verità Relativa (rappresentata dalle esperienze della vita quotidiana) e la Verità Assoluta (uno stato dell’essere che si vive in unità con la natura e con tutto ciò che ci circonda). Quando invece durante la meditazione si utilizzano sia il Dorje che la Campana, la Volontà è quella di bilanciare la parte maschile e quella femminile delle cose, per raggiungere la chiarezza spirituale.
Ogni parte della struttura del Dorje ha un suo preciso significato, in particolare le due estremità sferiche, che oltre a rappresentare “sunyata”, la primordiale struttura dell’universo, simboleggiano le due parti in cui è suddiviso il cervello.
La doppia fisionomia del Dorje ricorda anche due Fiori di Loto – uno dei sacri simboli del Buddhismo – che, unendosi rappresentano l’unione dei due mondi: quello fenomenico (samsara) e quello tangibile (nirvana), mentre le parti che simboleggiano i petali rimandano ai quattro “bodhisattva” e alle loro consorti.
I tre cerchi centrali, che fungono da punto d’unione per le due parti estreme del Dorje rappresentano invece la beautitudine che il Buddha raggiunge spontaneamente, senza sforzo.
Alle estremità dei due “Fiori di Loto” vi sono tre cerchi, simbolo delle sei vie che conducono alla perfezione: pazienza, generosità, disciplina, impegno, meditazione e saggezza.
L’importante messaggio di sacralità e purezza, indicato dal Dorje, raddoppia la sua potenza nei casi in cui esso venga rappresentato doppio. Il doppio Dorje, conosciuto come “Vishvavajra” ed utilizzato anche come sigillo a chiusura o firma di importanti documenti, viene spesso posto alla base di statue raffiguranti le principali divinità tibetane ed indiane e, se indossato serve da monito per rammentare l’assoluta indistruttibilità della Conoscenza.
IL GAO
Il Gao, conosciuto anche come Ga’u o Gahu, è il più spettacolare degli amuleti protettivi: una “scatola portafortuna” in argento incastonata di gioielli e pietre preziose.
Un tempo riservato solo ai rappresentanti delle famiglie nobili tibetane e ai dignitari, viene ancora oggi indossata come protezione dalla malasorte, dagli incidenti o dalle malattie, soprattutto in previsione di viaggi o spostamenti.
Tradizionalmente è formato da un elaborato contenitore d’argento al cui interno viene racchiuso un foglietto portafortuna, con una frase stampata o scritta a mano in sanscrito. Il messaggio è generalmente un breve passo religioso, spesso accompagnato da piccole reliquie come ad esempio oggetti benedetti da un Lama, frammenti di abiti di monaci o immagini di un Dio o un santo tutore.
Quando, con l’arrivo dei cinesi i tibetani sono stati costretti a vendere i loro beni più preziosi, hanno svuotato i Gao della loro parte “vitale”, riappropriandosi di quella parte sacra e benedetta a loro cara, vendendoli come scatoline preziose.
I Gau oggi in commercio presso antiquari o in mostra nei musei , sebbene rappresentino sempre delle vere e proprie opere di maestria artigianale, sono infatti quasi sempre vuoti.
Sul nostro sito ne potete trovare di moderni e antichi, di diverse dimensioni e con decori molto suggestivi.
KAPALA
La parola “Kapala” è di origine sanscrita, e significa teschio.
In effetti questa coppa rituale, utilizzata come calice per il sangue, è realizzata con teschi umani ed utilizzata in tutto il Tibet nei riti del Buddhismo Vajarana.
La coppa può essere riempita di carne o sangue, e a seconda di ciò che contiene viene chiamata “Arsskappala” o “Mamsa Kapala” .
Spesso sono decorati con metalli preziosi e gemme, ma per lo più vengono incisi con figure di divinità (soprattutto Kali la dea dell’eterna energia, Shiva il distruttore e principio primo di tutte le cose, e Ganesh colui che rimuove gli ostacoli), che vi vengono raffigurate nell’atto di bere il sangue direttamente dalla coppa.
Ciò per indicare che le divinità si dividono il compito di eliminare i demoni ed il male contenuti nella coppa.
Molte divinità associate al “Kapala” vengono raffigurate nei riti brandendo allo stesso tempo una “Kartika”.
L’AGATA DZI
La “Dzi” è una pietra dalle misteriose origini, apparsa per la prima volta nell’Antico Tibet tra il 2000 e il 1000 a.C. I primi esemplari, introdotti in Tibet dai soldati di ritorno dalla Persia, presentavano una serie di decorazioni lineari e circolari su una base oblunga in Agata e rappresentavano l’estrema abilità d’incisione e decorazione degli artigiani persiani, tecniche ormai andate perdute e non imitabili.
Sebbene l’origine delle “dzi” appaia ancora incerta sono note nel mondo intero come “pietre tibetane”, dato che i primi e più antichi e sacri esempi di queste particolari pietre sono stati rinvenuti dapprima in Tibet, per poi diffondersi in tutta l’area asiatica (dal Bhutan al Ladhak e fino a Sikkim).
La “Dzi” è un potente amuleto protettivo, formato da un unico pezzo di Agata (solitamente bruna, rossa o nera) su cui sono state incise decorazioni circolari, lineari, ad onda, quadrate in bianco o color avorio seguendo uno specifico motivo simbolico. Le forme, le decorazioni e i colori stessi della pietra possono variare enormemente da un pezzo all’altro.
Nella cultura Tibetana le “Dzi” sono ritenute una benedizione, un simbolo di grande prestigio e un amuleto molto potente: non solo vengono indossate come pendenti o bracciali proprio a protezione della persona, ma nell’antica e più tradizionale medicina tibetana le “Dzi” venivano frantumate e la polvere utilizzata come unguento o diluita in particolari bevande curative.
Ancora oggi si possono trovare esemplari di “Dzi” scheggiate o rotte, e sono quelle cui è stata tolta una parte per essere utilizzata in medicina. Queste “Dzi” vengono spesso messe in vendita perchè il potere protettivo originale è stato intaccato dall’utilizzo di parte della pietra.
Perchè il potere protettivo della “Dzi” si mantenga intatto la pietra deve passare di mano in mano come regalo, dono, o essere trovata per caso. Non è così raro trovare le “Dzi” nelle campagne tibetane: un tempo venivano indossate dai monaci come parte integrante dei rosari da preghiera, e venivano lasciate sul corpo del monaco quando questi veniva bruciato sulla pira durante la cerimonia funebre.
Adottate anche dalla cultura cinese, le “Dzi” hanno assunto il nome di “pietre del paradiso”, poiché la traduzione esatta rimanderebbe ad un insieme di “purezza, splendore, chiarore e luminosità”.
Negli esemplari più rari si presentano nel naturale motivo dell’ Agata utilizzata per le “Dzi” delle piccole macchie o puntini color rosso cupo, testimoni naturali della presenza di residui di Cinabro. Altri esemplari inusuali sono quelli definiti “a scaglie di drago”, che presentano sulla superficie dell’Agata un motivo venato che ricorda le squame della pelle del drago.
La caratteristica principale, comune a tutte le “Dzi” è comunque quella della decorazione, soprattutto quella circolare, definita “ad occhio”. Queste sono infatti le principali “Dzi” cui fa riferimento la culura tradizionale tibetana, poiché a seconda del disegno l’amuleto ha una destinazione: a seconda del numero di “occhi” che riporta la decorazione, la “Dzi” avrà il suo destinatario e la sua funzione.